Il Caso del Generale dei Carabinieri Saverio Cotticelli
Il Riformista, 10 novembre 2020
Un ricco al volante d’una fuoriserie vide un giorno un povero contadino, vecchio, avvolto in un mantello pieno di buchi, un cappello di paglia in testa, seduto su uno steccato. Commiserandolo, fermò l’auto per parlare con lui. “Qui io non potrei vivere”, disse, “tu qui non vedi niente e son sicuro che non puoi viaggiare come me. Io sono sempre in giro”! Il vecchio guardò il ricco dall’alto dello steccato e disse senza esitazione: “lo non vedo nessuna differenza fra me e te in quel che facciamo, io siedo sullo steccato e osservo le macchine che passano, tu siedi nella tua macchina e passando vedi gli steccati. La differenza è che io sto più al sicuro di te e per giunta non mi costa niente”.
È una storia raccontata dal biblista americano Martin Ralph De Haan.
E vi ho pensato subito dopo aver assistito allo spettacolo ben poco edificante dell’ormai ex Commissario ad acta alla sanità della Regione Calabria Saverio Cotticelli, di fronte alle telecamere di Titolo V, la trasmissione di Raitre, venerdì 6 novembre.
La storia è su tutti i media, per l’ennesima sorpresa nazionale, durante la quale tutti si strappano i capelli dallo sdegno per qualche tempo. Prima di rigirarsi come di consueto dall’altra parte, in attesa della prossima caduta dal pero.
Cotticelli non solo è apparso impreparato al limite dell’indecenza, impacciato e disarmato come un alunno delle elementari che non ha aperto libro, davanti alla maestra che lo interroga. Non solo, dalle parole della sua vicecommissaria Maria Crocco, che dall’altra stanza lo rimprovera dicendogli fuori campo: «La devi finire! Quando fai queste cose devi andare preparato», si intuisce che deve essere stata un’abitudine, quella di non fare i compiti.
Emerge soprattutto la strafottenza e lo spregio di chi, pur essendo il plenipotenziario della sanità in Calabria, in piena pandemia, che da marzo è il problema numero uno del mondo, del suo Paese, e quindi della regione per la quale lui è stato nominato alla più alta carica in materia di sanità, ha per i suoi primari doveri. Spregio per il diritto alla salute che dovrebbe garantire ai cittadini calabresi. Ma anche per il dovere di dignità nel compiere con un minimo di diligenza il proprio compito. Che immagino fosse retribuito. Ma che anche se non lo fosse stato, non giustifica la sua incapacità e inettitudine, aggravata dal fatto che non riguarda la messa in opera di un cattivo programma operativo per la gestione dell’emergenza Covid. Che non è nemmeno dovuta alla sopravvalutazione, sua o di chi lo ha nominato, delle proprie competenze per svolgere quel compito. Riguarda la palese strafottenza ed il menefreghismo di chi, pur avendo osato chiedere (e senza vergogna) al Ministero della salute, lui, plenipotenziario della sanità regionale, chi dovesse occuparsi del programma regionale anti-covid, non solo non si sia occupato di conoscerne la risposta, ma non sapesse nemmeno che la risposta gli era già arrivata. Con lettera che si trovava nella stanza accanto alla sua, e del cui contenuto apprendeva solo leggendola davanti alla telecamera. Apprendendo, con malcelata sorpresa, che era evidentemente lui il responsabile.
La cosa però che più indigna e lascia davvero a bocca aperta, è che il Signor Saverio Cotticelli non è il solito funzionario raccomandato e sprovveduto che si trova a gestire cose più grandi di lui. È invece addirittura un Generale di Corpo d’Armata (cioè il grado vertice: lo stesso grado del Comandante Generale!) dell’Arma dei Carabinieri.
Allora viene spontaneo porsi due domande.
La prima, pensando alla risposta data dal vecchietto seduto sullo steccato al ricco signore al volante della fuoriserie, è chi gliel’abbia fatto fare, al Generale Saverio Cotticelli, di guidare senza patente una fuoriserie impegnativa come la sanità calabrese. Che non ha comprato certo di tasca sua, ma a spese del contribuente, che ha guidato a suo rischio personale. Dimostrando palesemente di non sapere nemmeno dove fosse il pedale del freno. Correndo un rischio che lo ha portato a pagare, per quel giro in fuoriserie, in soli due minuti di intervista, il prezzo della sua stessa dignità. Costruita in quasi cinquant’anni, voglio credere onorevoli, di carriera nell’Arma.
Seppure in un paese dove abbiamo avuto ministri dell’Università senza laurea, e ministri degli esteri che non parlano una parola di una lingua straniera, non poteva accontentarsi di starsene seduto sul suo steccato e godersi la sua meritata pensione del massimo grado della carriera militare? Magari, se spinto dalla voglia di continuare a servire la collettività, avrebbe potuto contribuire, in modo meno pericoloso per lui e per gli altri, alle tante opere di volontariato che sostengono il Paese e la nostra società. Avrebbe così almeno evitato di mostrare al mondo che non era neppure in grado di leggere la posta a lui indirizzata. Perché non posso immaginare, nemmeno attimo, che avesse corrispondenze più importanti e urgenti da trattare, di quella che ha scoperto davanti alle telecamere televisive.
La seconda domanda, e non è retorica, è chi l’abbia messo su quella poltrona.
Voglio solo sperare che, nella migliore delle ipotesi, chi l’ha nominato non lo abbia fatto per le sue competenze in materia sanitaria. Voglio infatti immaginare che l’abbia fatto per l’immagine di serietà che la sua divisa dismessa (ancor più del grado rivestito) rappresenta per gli italiani. Serietà e affidabilità che, anche se non dovesse dare per acquisito che un Generale dei Carabinieri plenipotenziario alla sanità regionale sia consapevole della responsabilità che ha nella sua regione per la pandemia, dovrebbe dare almeno per acquisita la capacità di accorgersi di lettere così drammaticamente importanti che gli vengono indirizzate dal Ministero della salute.
In altro articolo, sul Riformista del 31 luglio 2020, mi chiedevo se fosse davvero un bene che il Comandante Generale dei Carabinieri provenga “solo” dall’Arma. Lo facevo riferendomi al terreno su cui sembra abbiano attecchito le male piante dei carabinieri trasformatisi in spacciatori di droga e aguzzini di Piacenza. Che sembra essere stato – con similitudini a certi aspetti di Magistratopoli – l’eccessivo e spregiudicato carrierismo, spesso movente non solo dei Carabinieri infedeli, ma anche di altri dirigenti investigativi.
Questa situazione, seppure con sfumature e gradazioni diverse, dimostra il rischio che corrono anche tutti gli altri organi di polizia.
L’insano carrierismo troppe volte spregiudicato (che vale non solo per le forze di polizia ma, come visto da Magistratopoli e dal caso Palamara, anche per la magistratura) potrebbe essere stato accentuato dal fatto che il Comandante Generale dei Carabinieri, da un decennio, proviene dalle fila dell’Arma, come quello della Guardia di Finanza dalle sole fila del Corpo. Rendendo quindi oggi tutti gli alti gradi di Carabinieri e Guardia di Finanza molto più permeabili e condizionati dalla politica. Senza l’appoggio della quale non potranno mai aspirare al vertice massimo.
Alcuni fatti di cronaca, come quelli di Piacenza, non rendono onore al valore della stragrande maggioranza dei Carabinieri. Che soffrono più di tutti gli altri cittadini del discredito gettato da alcuni delinquenti sul valore di una gloriosa storia plurisecolare. Scritta col sangue di tanti martiri ed eroi, e di tanti altri eroi silenziosi e dietro le quinte delle cronache. Che non si sentono in obbligo di travisarsi in TV sotto passamontagna e vestendo guanti da falconieri francescani, né di presentarsi come arruffapopolo sulle piazze, vantandosi di essere generali e vestendo giacche arancioni. Ma si sa, e mi riferisco a Piacenza, al caso Cucchi o agli stupratori di Firenze, che fa sempre più rumore l’albero che cade di quanto non lo faccia la foresta che cresce.
Le Forze Armate e di Polizia, compresi i Carabinieri, restano senza alcun dubbio tra i fiori all’occhiello del nostro Paese. In Italia e nel mondo. Normalmente – con le eccezioni che confermano la regola – isole felici di efficienza e autentico spirito di servizio nell’abnegazione.
Che non è però quello di cui ha dato prova venerdì il Generale Cotticelli. Che ha invece gettato un’ombra di discredito anche sull’Arma cui sempre appartiene, seppure in congedo. Ed in forza della credibilità per la quale era stato nominato in tale delicata funzione.
Come non rende servizio né alle Forze Armate né alle Forze di Polizia, ma soprattutto non lo rende al Paese, l’eccessivo carrierismo che ormai non si limita più alla scalata dei vertici militari. Proiettandosi invece anche nel dopo pensione. Ponendo molti interrogativi sull’indipendenza dalla politica, com’è stato per anni per i vertici (tranne i numeri uno, che provenivano dall’Esercito) di Carabinieri e Guardia di Finanza, che sono istituzioni della più grande delicatezza per la tutela delle libertà democratiche fondamentali del Paese.
Con ciò non voglio assolutamente affermare che le pubbliche istituzioni, comprese quelle rappresentative elettive, non debbano poter beneficiare dell’esperienza, a volte di inestimabile valore, di servitori in uniforme dello Stato, anche dopo il raggiungimento del loro limite di età.
Ma questo non deve diventare, come oggi sembra esserlo, una regola. Bensì l’eccezione che conferma la regola. E la stessa cosa dovrebbe avvenire per i magistrati.
Ma perché questo accada, oltre ad una maggiore presa di coscienza da parte delle Istituzioni e della Politica, dei rischi che potrebbe comportare il radicarsi di questa abitudine, ci sarebbe bisogno di maggiore consapevolezza da parte dei servitori dello stato del dovere morale non solo di non superare mai i limiti delle proprie capacità. E non solo dei propri meriti, veri o presunti. Ma anche il coraggio, che so non essere da tutti, di sapersi accontentare di quello che la vita professionale, a volte anche con persino troppa generosità, ha loro offerto.
Paolo di Tarso scriveva a Timoteo: “Or la pietà con animo contento del proprio stato è un gran guadagno”, mentre Gesù, secondo il Vangelo di Luca, diceva “non è dall’abbondanza dei beni che uno possiede, ch’egli ha la sua vita”.
Ma io ho avuto anche la fortuna di conoscere un grande Comandante Generale della Guardia di Finanza come il Generale Gaetano Pellegrino, che alcuni definivano a giusto titolo “un’asceta della vita militare”. A chi, come me, gli chiedeva cosa avrebbe voluto fare alla fine del suo mandato di Comandante Generale rispondeva: “Dopo aver comandato la Guardia (n.d.r.: come lui chiamava la Guardia di Finanza), io potrei accettare soltanto di fare il Pontefice. Ma siccome so di non averne i titoli, me ne andrò tranquillamente in pensione”. E così fece, ritirandosi nel suo amato Trentino.
Auguro pertanto al Generale Saverio Cotticelli di poterlo fare con la stessa serenità.
Il Caso dell’ex Procuratore Nazionale Anti Mafia, Federico Cafiero De Raho
Il Riformista, 5 settembre 2022
Quando ho appreso la notizia della, per me sorprendente, candidatura alle elezioni politiche 2022 di Federico Cafiero De Raho, mi sono ritornate in mente alcune delle considerazioni fatte a proposito della vicenda del Generale dei Carabinieri Cotticelli, e della sua magra figura come Commissario straordinario per la Sanità in Calabria.
Non perché Cafiero De Raho, a differenza di Saverio Cotticelli, non abbia le competenze per la nuova funzione cui aspira, e che gli è stata garantita dalla posizione di capolista. Ma perché sino a pochissimi mesi prima aveva ricoperto – dal 2017 sino a maggio del 2022 – la delicatissima funzione di Procuratore Nazionale Anti-Mafia e Anti-Terrorismo. Dirigendo cioè l’ufficio giudiziario requirente più delicato del nostro Paese. E persino d’Europa. L’unico con competenza su tutto il territorio nazionale. Con accesso diretto, pertanto, alle informazioni più delicate e riservate su tutti i cittadini. Compresi, e soprattutto, viene legittimo pensare, quelle di coloro – e di loro parenti e amici – che sono ora diretti potenziali avversari politici, e contendenti, del candidato Cafiero De Raho.
Mi sono allora chiesto cosa può avere spinto quello che sino all’annuncio della sua candidatura consideravo un vero uomo delle istituzioni, integerrimo servitore dello Stato e magistrato esemplare, a entrare così rapidamente nell’agone partitico.
Ho incontrato personalmente una sola volta Cafiero De Rhao. Fu in occasione di un suo applaudito intervento su criminalità organizzata di tipo mafioso e terrorismo presso l’Università fiamminga di Bruxelles (la celebre VUB).
L’allora Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo descrisse l’organizzazione investigativa nazionale italiana. Che io ben conosco dagli esordi, avendo avuto occasione di collaborare personalmente su alcune delicatissime indagini internazionali con l’allora Procuratore Nazionale Pierluigi Vigna. Un grande magistrato che poteva essere appetibile per molti partiti, ma che abbandonata la toga non scelse la discesa in campo partitico.
Cafiero De Raho si soffermò a illustrare la banca dati nazionale, gestita dalla sua procura nazionale. “Pensate se tutti i paesi avessero lo stesso sistema”, disse a giusto titolo. Sottolineando il ruolo di coordinamento e impulso, senza altri esempi in Europa, che la procura nazionale ha nei confronti delle procure distrettuali, nonché dei contatti con le autorità giudiziarie degli altri paesi, europei e no. Anche attraverso la costituzione di squadre investigative comuni. Cosa ancora impensabile negli altri paesi.
Citando l’insegnamento di Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ricordò infine come solo con la passione per un lavoro investigativo di squadra, che non conosce soste e limiti temporali, si può combattere e sperare di vincere la guerra contro questa malapianta.
E passione, spiegava Cafiero De Raho, significa soprattutto “saper soffrire con gli altri e per gli altri”.
Provai subito personale stima per le parole di quel Magistrato, e soprattutto per l’Uomo che dimostrava di essere.
Stima che, devo confessarlo, è stata duramente messa alla prova dalla sua repentina discesa in campo. Peraltro, nelle fila di un partito che per molti rappresenta il simbolo del “giustizialismo” peloso, manettaro e populista che davvero poco ha a che fare con la cultura di “Giustizia” equilibrata ed indipendente – con la emme non a caso maiuscola – di cui tanto avrebbe bisogno il nostro Paese.
Perché non aspettare un po’, magari la prossima tornata elettorale, prima di targarsi con un colore partitico? Non sarebbe stata una migliore prova di “saper soffrire con gli altri e per gli altri”, dimostrando soprattutto il coraggio di saperlo fare fuori dai riflettori cui forse è da troppo tempo abituato?
Personalmente l’avrei considerato più degno di un vero uomo di giustizia e servitore dello stato ma soprattutto più coraggioso. Forse perché sono convinto che il proprio Paese ed i cittadini li si possa servire anche, e direi soprattutto, al di fuori della politica di parte dei partiti attraverso tante forme di impegno di volontariato istituzionale, non remunerato, e al di fuori di qualunque connotazione partitica.
Nulla di illegittimo, intendiamoci, nella discesa in campo di De Raho poiché in Italia sono numerosissimi analoghi precedenti, impensabili in altri paesi. Come quelli dei vari Di Pietro, Ingroia, e più recentemente dello stesso Scarpinato, tanto per citarne alcuni di una lunghissima fila, ai quali non mi esimo di aggiungere, per par condicio, nemmeno la recente, e per me ingiustificabile, candidatura al Comune di Napoli, come Sindaco, in quota Centrodestra, di Catello Maresca, quando, proprio a Napoli, era in servizio come Sostituto Procuratore Generale della Repubblica.
Ma finché non ci sarà per i magistrati una legge che ne vieti l’entrata in politica prima di un certo numero di anni dopo la cessazione delle funzioni giurisdizionali, mi sarei forse atteso, da un uomo come Cafiero De Raho, una forma di autolimitazione che non ha dimostrato di avere.
Forse, mi viene da pensare, per l’incapacità di avere il coraggio di accontentarsi.
Il grande Tiziano Terzani diceva: “c’è una bella parola in italiano, che è molto più calzante della parola felice, ed è contento. Accontentarsi. Uno che si accontenta è un uomo felice. Perché questo sistema fondato sulla crescita dei desideri – c’è sempre un desiderio che per te è irraggiungibile – rende tutti infelici”.
Ed al Dottore Cafiero De Raho, che non ha dimostrato di avere il coraggio di sapersi accontentare, auguro comunque di essere contento della sua scelta.
Pur condividendo in gran parte il contenuto di questa bellissima lettera aperta scrittagli dall’Avvocato napoletano Bruno Botti.
Spero davvero che l’abbia letta. O che la legga. Perché ancora in tempo per dimostrare quel coraggio che, agli occhi di molti, gli è forse mancato.
Quello di sapersi accontentare.
***
“Egregio dott. Cafiero de Raho,
mi permetto di rivolgermi direttamente a Lei in virtù della mia lunga militanza da avvocato che mi ha portato spesso ad incrociare la Sua strada e la Sua carriera. Venni persino a salutarla, quando partì da Napoli, per approdare al vertice della Direzione Nazionale Antimafia. Mi sembrava doveroso venire a renderLe omaggio nel momento in cui coronava meritatamente una carriera densa di successi. Riconoscevo in Lei, insomma, una persona seria con la quale potersi confrontare, da prospettive diverse, sui grandi temi del mondo della giustizia, con lealtà e, soprattutto, competenza.
Solo per questo mi permetto di offrirLe un paio di osservazioni sulla Sua candidatura al parlamento italiano nelle file dei cinquestelle.
La prima è di natura squisitamente istituzionale: la direzione nazionale antimafia è un organismo, magari persino sopravvalutato, ma pur sempre di coordinamento e di intelligence nella lotta al crimine organizzato. Nel Suo ruolo Lei è inevitabilmente venuto in possesso di notizie assolutamente riservate e segrete, naturalmente sottratte alla conoscenza di qualsiasi comune cittadino e persino alle alte cariche dello Stato. Ora, capirà perfettamente che questo bagaglio di conoscenze, straordinariamente utile e prezioso finché ricopriva quella funzione, rischia poi di trasformarsi in un’arma micidiale nei confronti dei suoi eventuali e futuri avversari politici. Per carità, non mi fraintenda: non penso affatto che Lei intenda utilizzare quelle informazioni a scopo politico o, peggio, ricattatorio. Io penso solo quello che – sono certo – pensava anche Lei quando, da cittadino, giudicava il mondo della politica: chi aspira alle più alte cariche istituzionali non deve essere soltanto trasparente e senza peccato, deve anche apparire tale. È così? Mi sbaglio? Pensi che quando il Suo ex collega Piero Grasso assurse alla seconda carica dello Stato, un brivido mi corse lungo la schiena. Eppure, mi creda, nessuno ebbe mai alcun dubbio sulla serietà e buona fede dell’uomo. Anche in quella occasione, però, pensai (e con me molti altri) che se uno sceglie una strada, al servizio del Paese, altre gli restino precluse. Questo non per pretese incompatibilità formali ma soltanto per il rispetto di elementari regole democratiche non scritte. Chi ha trascorso la propria vita ad indagare le vite degli altri, dovrebbe avere la sensibilità istituzionale di sottrarsi al richiamo della politica e non schierarsi con una delle parti in campo. Perché, vede, la tentazione di adoperare quelle indagini per avvantaggiarsi sui propri competitors o magari soltanto per millantare di avere informazioni sensibili, altera gli equilibri democratici. È una questione di bon ton istituzionale. Niente di più e niente di meno.
Lei è un intellettuale raffinato, sono certo che questa banale riflessione non può esserLe sfuggita.
Ma c’è di più: se proprio non si riesce a resistere alle sirene tentatrici della politica e, piuttosto che godersi la strameritata pensione, si sente l’urgenza di rimettersi in gioco al “servizio dello Stato”, come Lei ha detto, si deve scegliere proprio i pentastellati? Cioè quel partito che ha fatto strami dello Stato di diritto, con una arroganza pari soltanto alla propria incompetenza. Davvero non Le crea imbarazzo offrire la Sua immagine di raffinato giurista a chi ciancia di “certezza della pena”, intendendo “certezza del carcere” ed ingannando così i cittadini sulla portata securitaria della pena detentiva, smentita, come Lei sa bene, da innumerevoli e prestigiosi studi statistici? Non la infastidisce essere accomunato a quelli che hanno fondato le proprie fortune politiche al grido “buttiamo le chiavi”? Che hanno ripetuto come un disco rotto “in galera in galera”? Che non hanno perso occasione per dimostrare la propria assoluta mancanza di alfabetizzazione in tema di garanzie di libertà?
E poi, mi perdoni, vogliamo una volta per tutte finirla con questo stucchevole giochino del più “antimafia del reame” che già tanti danni ha prodotto, quasi quanti la mafia stessa?
Insomma, tanto per dirla fuori dai denti, sentiva proprio il bisogno di regalare a questa formazione politica l’ennesimo Santino di eroe senza macchia e senza paura, ed essere inserito così nell’album dei testimonial prêt à porter da esibire a richiesta nel corso della campagna elettorale?
Insomma, egregio dott. Cafiero, ci ripensi. Non vanifichi anni di impegno, professionalità, competenza sull’altare dell’opportunismo e della demagogia. Non se lo merita.
Con immutata stima.
(Avv. Bruno Botti)”